
Ci sono cose che crediamo di dimenticare, sepolte tra le memorie di giorni offuscati. In realtà sonnecchiano da qualche parte del nostro cervello, incapaci di andare al ritmo di oggi. È un po’ come se all’improvviso i primi modem – col loro fischiettare incerto e le pernacchie rumorose – venissero catapultati in questo tempo di connessioni senza fili e banda larga.
Queste cose perdute, questi ricordi, non scompaiono o si cancellano, entrano solo in stand by fino a quando qualcosa o qualcuno ce le ripropone.
C’è ad esempio il trasloco dei genitori che ti costringe ad analizzare anni di adolescenza, fatti di foto imbarazzanti e pantaloni dai colori fluorescenti, per selezionare cosa tenere e cosa lasciar andare. Inutile dire che anche sotto la minaccia paterna di buttare tutto, ad alcuni oggetti non riesci a rinunciare: le gommine a forma di merendina, gli scubidù, le lettere di tua cugina, i menù dei pranzi di famiglia.
Quei menù… se potessero parlare racconterebbero di un nonno che prima tagliava il formaggio a cubetti con precisione da ingegnere mancato e l’attimo dopo si dedicava con i nipoti a disegnare fiori e arabeschi per abbellire i cartoncini dei menù, descriverebbero l’allegra baraonda che dalla mattina invadeva la casa dei nonni e non scemava che nel tardo pomeriggio, quando i grandi riposavano sul divano e i piccoli inventavano recite e giochi.